La tavola del Signore
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Introduzione: la tavola di Israele, del popolo di Dio
Chi legge con assiduità la Bibbia sa quante volte in essa si raccontano pasti, cene, banchetti, quante volte si menziona lo stare a tavola e quante volte si parla di cibi, di alimenti per la nutrizione dell’essere umano. Testimoniando la storia dell’umanità e la vita di uomini e donne, la Scrittura non può non parlare di cibo e di pasti; e proprio le parole bibliche sul mangiare e sugli alimenti gettano luce su queste realtà umanissime, inerenti alla vita. Per questo nella Bibbia si trovano indicazioni su cosa mangiare, come mangiare e anche con chi mangiare. La tradizione ebraica e poi quella cristiana, volendo essere vie di senso per l’umanità, hanno tentato di rischiarare la realtà del cibo, del pasto e della tavola sia in rapporto alla persona sia in rapporto alla società. Ecco perché la tematica del cibo attraversa tutta la Bibbia, dalle prime pagine della Genesi al libro finale dell’Apocalisse: perché nutrimento, cibo e tavola dicono qualcosa di fondamentale sulla vita umana, sulla sua vocazione, sulle sue sfide e anche sul Dio creduto e confessato.
Gettiamo uno sguardo sommario sui pasti decisivi celebrati nell’Antico Testamento. Basti ricordare che ogni pasto aveva un carattere sacro, che i sacrifici offerti al Signore erano anche pasti in cui gli offerenti condividevano il nutrirsi delle vittime o dell’offerta con i sacrificatori, i sacerdoti. E certamente va anche rammentato che la festa principale di Israele, quella che celebrava la sua origine, cioè la liberazione dall’Egitto, era vissuta in un pasto preso la vigilia di Pasqua, pasto in cui si mangiava l’agnello come zikkaron, memoriale del riscatto del popolo di Dio. Di generazione in generazione – dice la Torah – Israele mangerà l’agnello immolato dalla comunità con pani azzimi ed erbe amare, come rito perenne, festa del Signore (cf. Es 12,1-14). La Torah precisa inoltre che il pasto pasquale, essendo per Israele un pasto memoriale, non potrà essere condiviso da incirconcisi: “nessuno straniero ne deve mangiare” (Es 12,43), “non ne mangi nessuno che non sia circonciso” (Es 12,48) – si afferma –, proprio subito prima di attestare che “vi sarà una sola legge per l’ebreo e per lo straniero” (Es 12,49). Il pasto pasquale, di fatto, è paradigma di ogni pasto consumato dal popolo di Israele: sarà sempre condivisione dei frutti della terra e degli animali, sarà sempre uno strumento di comunione, sarà sempre segno dell’alleanza.
Nel libro della Genesi, al momento di creare l’umano Dio dice:
"Facciamo l’umano a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra (Gen 1,26).

Poi, dopo la famosa affermazione: “E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gen 1,27), si torna a ribadire:


Dio li benedisse e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che si muove sulla terra” (Gen 1,28).
Una chiara eco di questi testi è il Salmo 8, che presenta l’uomo “poco meno di Dio” (v. 6), con tutte le creature animali sottomesse ai suoi piedi (cf. vv. 7-9). Ma di quale dominio si tratta? Subito dopo, infatti, sta scritto: “Dio disse: ‘Ecco, io vi do ogni erba che produce seme su tutta la terra e ogni albero il cui frutto produce seme: saranno il vostro cibo’” (Gen 1,29). Parallelamente, agli animali della terra e del cielo Dio “dà come cibo ogni erba verde” (cf. Gen 1,30), la verdura. L’uomo dunque sarà solo pastore, non predatore. Se è vegetariano, allora rispetta gli animali, sui quali deve sì dominare, ma con dolcezza, senza essere mai per loro una minaccia né dare loro la morte.
È la catastrofe del diluvio (cf. Gen 6,5-8,14) che segna il passaggio da un comportamento a un altro. Proprio perché l’uomo si è mostrato violento fino all’uccisione del fratello (Caino e Abele: cf. Gen 4,8-16), allora Dio, tenendo conto di tale violenza, gli permette di mangiare gli animali, nella speranza che almeno cessi la violenza dell’uomo sull’uomo. Dio afferma: “Quanto si muove sulla terra e tutti i pesci del mare sono dati in vostro potere. Ogni essere che si muove e ha vita vi servirà di cibo” (Gen 9,2-3). Ma significativamente pone un preciso limite: “Soltanto, non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue” (Gen 9,4). È un chiaro segno della necessità di rispettare la vita: bere il sangue dell’animale è incorporare in sé la sua vita, e ciò non è possibile, è oltre il limite! Queste regole non sono meramente alimentari, ma vogliono indicare un comportamento etico dell’uomo verso i suoi simili, un cammino di pace e di convivialità, come il testo precisa con grande sapienza: “Del vostro sangue, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello, dice il Signore (Gen 9,5).
Dio fa dunque questo dono di creature buone e salutari, un dono che certo chiede all’uomo responsabilità, consapevolezza di ciò che mangia, rispetto per il cibo e condivisione, perché tutte le creature sono destinate a tutta l’umanità, non ad alcuni privilegiati o “rapinatori”. Resta però vero che questo dono di Dio non è stato compreso dagli umani, che ben presto sul cibo hanno introdotto le categorie del puro e dell’impuro, hanno giudicato alcuni cibi salutari e altri maledetti, finendo per innalzare muri di separazione che impedivano il pasto come azione comune, come gesto di accoglienza e di partecipazione condivisa. Più precisamente, proprio in ambito alimentare – ambito culturale che decodifica in vario modo il rapporto tra cibo e società – gli ebrei hanno elaborato prescrizioni e divieti, facendo attenzione soprattutto alla categoria della “separazione” come fonte di ordine. La tradizione sacerdotale di Israele si è impegnata nell’elaborazione di norme per dare al popolo di Dio una precisa identità, che lo distinguesse dai goijm, dalle altre genti. Per questo si distinguono animali puri e impuri, si vietano mescolanze addirittura nei tessuti, si condanna la condivisione della tavola con i pagani. Il tutto a partire dal bisogno di distinzione dagli altri popoli, ammantato anche di una motivazione teologica: “Sarete separati per me, poiché io, il Signore, sono separato e vi ho separato dagli altri popoli, perché siate miei” (Lv 20,26).
Questo bisogno di identità e di differenza dagli altri divenne una vera e propria ossessione nel tempo post-esilico, quando la lettura della Torah, della Legge, finì per essere interpretata come principio di separazione all’interno dello stesso Israele (cf. Ne 13,3), una sorta di “pulizia etnica”! L’impurità fu intesa anche a livello genealogico, al punto che non solo gli alimenti ma anche le persone furono giudicate pure (i giudei) e impure (i gojim, i samaritani…). Sorsero poi movimenti religiosi che, seppur composti da laici, volevano obbedire rigidamente alle norme di santità osservate dai sacerdoti: il gruppo più conosciuto portava il nome emblematico di perushim, farisei, cioè separati. Contro ogni tentativo di assimilazione, opponevano resistenza fino al sangue e diventarono sempre più intransigenti, aumentando e rendendo più severe le prescrizioni riguardanti la purità/santità. E così l’identità dei credenti era cercata in norme sui cibi e, di conseguenza, nell’esclusione dalla propria tavola di chi non seguiva tali norme: i pagani, i peccatori pubblici, gli uomini e le donne ritenuti indegni di stare a tavola con quanti si consideravano gli unici degni di esseri definiti figli di Dio, orgogliosamente distinti da quelli che erano pubblicamente impuri, a causa della loro non osservanza della Legge. Il pasto divenne dunque progressivamente sempre di più un luogo di esclusione, di separazione. I rabbini precisavano con crescente minuzia le prescrizioni riguardo ai pasti; i farisei, volendosi interpreti della Legge e amando la Legge più del Legislatore, erano attentissimi alle regole dietetiche e alle frequentazioni conviviali; gli osservanti ascetici con il loro rigorismo e la loro predicazione intransigente mettevano in guardia i credenti da ogni mescolanza con i costumi dei gojim.
È in questa situazione culturale e religiosa che si colloca e si insinua il rabbi di Galilea Gesù di Nazaret, il quale mostra ben presto un comportamento “altro” rispetto a quelli degli uomini religiosi e delle autorità giudaiche. Proprio nel suo stare a tavola, andare a tavola, accettare l’invito a tavola opera una rottura, uno strappo con l’etica religiosa dominante. Gesù giudica la separazione tra puro e impuro come una barriera che deve cadere, in vista della comunione con ogni uomo, e per questo – anche correggendo la Legge, ma nell’ottica di cogliere l’intenzione più profonda e originaria del Legislatore, di Dio, cioè l’amore per l’uomo – abbatte le frontiere con l’altro, con lo straniero, con l’impuro, con il peccatore. Come già detto, occorre tenere presente che quello del cibo e della commensalità era un tema bruciante per gli ebrei del tempo di Gesù, e conosciamo dagli Atti degli apostoli le resistenze opposte persino da Pietro e dagli altri Undici alle aperture di Paolo su tale argomento. La condivisione della tavola con cristiani di origine pagana, non giudei, faceva problema a Pietro, che peraltro aveva beneficiato di una visione e di una voce dal cielo che gli aveva detto di recarsi senza temere in casa di Cornelio, un centurione romano convertito alla fede, e di mangiare alla sua tavola (cf. At 10).
Sì, Gesù ha avuto un comportamento in base al quale l’evangelista Marco potrà scrivere: “Dichiarava puri tutti gli alimenti” (Mc 7,19). Egli, infatti, sapeva bene che nulla di ciò che entra nell’uomo lo rende impuro, ma lo rende impuro ciò che di malvagio esce dal suo cuore (cf. Mc 7,18-23).
 
Nei prossimi due appuntamenti approfondiremo le occasioni in cui gli uomini hanno invitato Gesù alla loro tavola e quelle in cui è stato Gesù ad invitare gli uomini alla sua tavola.
 
 

Commenti

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    1. Grazie per il commento. Poiché il sistema ti ha battezzato come unknown - Sconosciuto mi dici chi sei? Vorrei fare del blog una occasione di incontro personale. Un caro saluto. Giancarlo

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  2. Molto interessante questo tuo primo intervento! Lo stare a tavola, il prendere cibo insieme, hanno avuto da sempre un forte significato simbolico che va ben oltre il semplice nutrimento del corpo! Da sempre, l'invitare qualcuno alla propria tavola dice l'intimità di una relazione o quantomeno il desiderio di questa intimità. Anche da un punto di vista sociologico, la tavola è stato sempre un luogo di accoglienza o di separazione. Penso a quando le donne e i bambini mangiavano separatamente dagli uomini o dopo di loro, ad esempio. Sono curiosa di leggere le tue prossime riflessioni. Scommetto che Gesù ce ne dirà di cose belle! A presto! Ivana

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    1. Purtroppo per gli ebrei la esclusione dalla comunione di tavola era la plastica rappresentazione della esclusione dalla comunione con Dio. Giancarlo

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  3. Sempre più grazie a te il mio desiderio di conoscere la Ns storia mi riempie di emozioni ... da sempre per dichiarare il proprio essere distaccato e diverso da una persona viene dimostrato con l'affermazione della mancata condivisione della tavola. Il mio commento, considerata la mia preparazione, vuole avere l'unico scopo di testimoniarti l'entusiasmo di seguire i tuoi incontri

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    1. Grazie per il tuo sincero commento. Ricorda di mettere il tuo nome, perché il sistema, purtroppo, ti ha registrato come "sconosciuto". Giancarlo

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