La tavola
del Signore: Gesù invita a tavola
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Gesù non
solo è stato invitato a tavola, ma ha
anche invitato a una tavola, la sua tavola. Ecco perché nel Nuovo
Testamento troviamo le espressioni “tavola
del Signore” (tràpeza Kyríou: 1Cor 10,21; cf. Lc 22,30) e “cena del Signore” (kyriakòn deîpnon:
1Cor 11,20).
A tale
riguardo, dobbiamo in primo luogo fare almeno qualche allusione alle cosiddette
moltiplicazioni dei pani e dei pesci che Gesù ha compiuto per le folle che lo
seguivano. Si tratta di autentici pasti raccontati da tutti gli evangelisti, e
addirittura precisati in due racconti da Marco e da Matteo. Le narrazioni sono
dunque sei (cf. Mc 6,30-44;
8,1-10; Mt 14,13-21;
15,32-39; Lc 9,10-17;
Gv 6,1-13), e ciò indica
l’importanza attribuita dagli evangelisti all’episodio, sia in quanto profezia della cena del Signore
lasciata come memoriale ai suoi discepoli nella vigilia della sua passione, sia
in quanto profezia del banchetto
escatologico che Dio prepara nel Regno per tutta l’umanità. Conosciamo bene
i racconti: la folla segue Gesù in luoghi solitari, è ormai sera e i discepoli
si preoccupano perché non hanno nulla da dare da mangiare a tante persone. Gesù
invece ha compassione nel vedere questa folla numerosa, sente questi uomini
come pecore senza pastore e dà loro il cibo della parola. Alla fine chiede ai
discepoli: “Voi stessi date loro da
mangiare”. I discepoli obiettano che hanno solo cinque (sette) e due
(pochi) pesci, ma Gesù comanda di far adagiare quella folla sull’erba verde, “a gruppi di commensali” (sympósia
sympósia: Mc 6,39):
non si tratta solo di mangiare, di consumare
cibo, ma siamo in presenza di un banchetto, di un simposio, nel quale i
commensali mangiano insieme, fanno comunione.
“Gesù allora prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, pronunciò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li
distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti” (Mc 6,41 e par.).
Faccio solo
notare un particolare determinante: quattro dei verbi qui usati sono quelli che
ritorneranno – come vedremo – anche nella descrizione dei gesti compiuti da Gesù sul pane nell’ultima cena (cf. Mc 14,22 e par.; 1Cor 11,23-24): gesti
talmente performativi, talmente riassuntivi dell’intera vita di Gesù spesa
nella libertà e per amore, che si può ricorrere solo a essi per narrare anche
gli altri banchetti da lui offerti nella sua vita.
Qui dunque è Gesù che invita al banchetto, che dà da mangiare pani e pesci, è
lui che presiede quei gruppi disposti ad aiuola come in un simposio. Anche in
questo caso l’insegnamento è grande: il
pane e il vino sono un dono di Dio, sono cibo per l’uomo, e quando l’uomo
benedice Dio per il cibo e sa condividerlo, allora c’è cibo per tutti, per
tutti! Anche quando si ha poco, se
sappiamo benedire e condividere, allora vedremo il poco moltiplicato e sufficiente
per tutti. Dono e condivisione sono la dinamica di ogni pasto, e anche il
poco va sempre condiviso. Sì, questi pasti della moltiplicazione dei pani che
Marco e Matteo collocano sia in terra di Israele, come profezia dell’eucaristia
donata agli ebrei, sia in terra pagana, come profezia dell’eucaristia donata
alle genti, attestano la volontà di Gesù, lui che è il pane e il vino donati,
lui che è la vita donata e offerta a tutta l’umanità.
Ma questi
pasti ai quali Gesù ha invitato le folle annunciavano ciò che sarebbe avvenuto
nella passione e morte di Gesù, evento di cui egli ha voluto lasciare un segno,
un memoriale nel banchetto eucaristico.
Nonostante le differenti ottiche con cui cercano di leggere la vicenda di Gesù,
i vangeli sinottici sono concordi: nell’imminenza della Pasqua, che ricorreva
il sabato 8 aprile dell’anno 30
della nostra era, Gesù, volendola celebrare da ebreo in alleanza con Dio e
volendola portare a compimento, a pienezza, venuto il giorno degli azzimi manda
i discepoli a fare i preparativi per
poter “mangiare la Pasqua” in una
casa a Gerusalemme, dove c’era una sala al piano superiore arredata con
divani (cf. Mc 14,13-16
e par.). La Pasqua era soprattutto
celebrazione del pasto vigiliare, nel quale si mangiava l’agnello pasquale con
pani azzimi ed erbe amare (cf. Es 12,8).
Quando tutto è pronto, venuta la sera, Gesù
è nella “sua sala” (cf. Mc 14,14)
con i Dodici, la sua haburah,
la sua comunità, e subito – secondo Luca – dice loro la grande gioia costituita
per lui da quella cena: “Ho desiderato
con grande desiderio (desiderio
desideravi) mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione,
perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di
Dio” (Lc 22,15-16).
Poi, preso un calice colmo di vino, lo diede ai discepoli dicendo di
condividerlo, perché era l’ultimo vino, frutto della vite, che egli beveva qui
sulla terra, prima di berlo come “vino nuovo” nel regno di Dio (cf. Mc 14,25 e par.).
Possiamo
dire che questo è stato l’ultimo brindisi di Gesù, un gesto straordinario,
carico di speranza, di promessa e di addio: “Fratelli,” – dice ai discepoli –
“beviamo per l’ultima volta insieme, qui e ora; ma, siatene certi, berremo di
nuovo insieme il vino nuovo nel Regno, il vino del banchetto escatologico”. Poi
Gesù e la sua comunità mangiano la cena, quella che giustamente chiamiamo
“l’ultima cena”. È stato un pasto con piatti pasquali e parole scambiate che
spiegavano i gesti con creatività e sapienza; è stato un pasto in cui Gesù ha voluto dire ciò che più gli stava a
cuore, a Pietro e agli altri Undici, tra cui anche Giuda che lo aveva
venduto; è stato un pasto testamentario,
in cui Gesù ha espresso le sue ultime volontà, riassunte nel “comandamento nuovo”, ultimo e definitivo, dell’amore
reciproco (“Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”: Gv 13,34; 15,12),
guardando al futuro della sua comunità, dopo la separazione da lui. Nei quattro
vangeli, ma soprattutto in Luca e in Giovanni, pur in modi molto diversi, c’è
la testimonianza del testamento di Gesù che se ne sta andando verso la morte
con grande consapevolezza. Pare che anche a quella tavola i discepoli non
abbiano capito, né bene né tutti; che anche a quella tavola – come sovente
accade nelle nostre tavole – siano affiorate contese; che anche a quella tavola
vi sia stato chi pensava di dover essere servito senza mai servire gli altri.
Gesù allora dà l’esempio di “stare a
tavola, in mezzo a loro, come colui che serve” (cf. Lc 22,27).
Ma ciò che
avvenne in quell’ultima cena, come assoluta novità capace di inaugurare un
tempo nuovo, quello della nuova alleanza,
furono due gesti di Gesù, narrati dai sinottici (cf. Mc 14,22-24 e par.) e da
Paolo nella Prima lettera ai Corinti (1Cor 11,23-25). Mentre
erano a tavola e mangiavano
“[Gesù], preso del pane e pronunciata la benedizione
(o anche: “reso grazie”), lo spezzò e lo diede loro, dicendo:
‘Prendete, questo è il mio corpo’.E preso un calice e avendo reso grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro:
‘Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per le moltitudini’”.
Ecco i gesti che anticipano come segno la
passione e la morte del Signore, ecco i gesti che i discepoli dovranno fare
in sua memoria (cf. Lc 22,19;
1Cor 11,24): ecco il dono
dell’eucaristia. Gesù prende il pane del bisogno, il pane necessario per la
vita dell’uomo, benedice Dio per esso, lo spezza e lo divide dicendo: “Questo è
il mio corpo, questa è la mia vita donata a Dio. Partecipate alla mia vita,
mangiando il mio corpo in questo pane”. Poi prende il calice del vino, il vino
della non necessità, della gratuità e della gioia, il vino mai assente nelle
nozze, nella celebrazione dell’alleanza, nella celebrazione dell’amore (cf. Gv 2,1-11), e su quel
calice, dopo aver reso grazie, dice: “Questo è il mio sangue dell’alleanza,
della nuova alleanza. Tutta la mia vita è donata a voi, e voi bevendo al calice
permettete che la mia vita rappresentata nel sangue entri in voi. Una sola vita
in me e in voi, una comunione profonda, comunione di corpo e di sangue”.
Da quella sera è sempre pronta per ciascuno di noi la
tavola del Signore, in cui ci
sono offerti pane e vino, corpo e sangue di Cristo, affinché siamo una sola cosa
con lui e tra di noi. Abbiamo una tavola
in cui ci è possibile comunicare con Cristo fino a vivere della sua vita, fino
a diventare sua dimora, fino a introdurre in noi il suo corpo e il suo sangue
che, nel paradossale metabolismo eucaristico, trasformano noi in corpo e
sangue di Cristo. Durante tutto il suo ministero Gesù era stato
commensale dei peccatori, e anche alla fine ha voluto essere commensale dei
peccatori: di Giuda che lo aveva venduto, di Pietro che per paura avrebbe detto
di non averlo mai conosciuto, degli altri, pavidi, pusillanimi e sbiaditi, con
la sola forza di fuggire abbandonandolo tutti (cf. Mc 14,50). Dobbiamo dirlo:
togliete l’amore fedele di Gesù, e quell’ultima cena è una miseria, perché i
commensali sono poveri uomini, incapaci di essere semplicemente uomini
autentici!
Una ultima
ma importante sottolineatura: se i pasti di Gesù non sono stati un luogo di
separazione dettata da norme di purità, se Gesù è stato alla tavola dei
peccatori rompendo con la prassi veterotestamentaria, se ha mangiato l’ultima
cena con una comunità così misera e peccatrice, perché l’eucaristia che
celebriamo spesso è un luogo di esclusione all’interno della stessa comunità
cristiana? Possiamo escludere dall’eucaristia, dalla tavola del Signore, quelli
che faticano sotto il loro giogo e che Gesù voleva rinvigorire (cf. Mt 11,28-30)? La tavola
del Signore non deve essere un luogo e di esclusione, ma di guarigione e di
comunione per noi, che siamo tutti peccatori. Lo stare a tavola di Gesù e tutti
i pasti da lui vissuti obbedivano sempre a una sola logica: accogliere i
peccatori per offrire loro la salvezza. La tavola del Signore non è un
premio per i buoni, non è un privilegio per alcuni, come ci ricorda papa
Francesco: “L’eucaristia non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio
e un alimento per i deboli” (Evangelii gaudium 47). No, essa è cattedra
della condivisione, cattedra della comunione dei beni materiali e spirituali,
cattedra della misericordia di Dio per noi e della misericordia da vivere nella
reciprocità della comunità cristiana.
Lascio una breve riflessione alle tue ultime righe. Quanto è cambiata, nel corso della storia, la visione della partecipazione al Banchetto Eucaristico! Leggendo tempo fa il libro "Storia di un'anima" di Santa Teresa di Lisieux, mi colpì la lunghissima preparazione che dovette fare per essere ritenuta degna di accedere al Sacramento della Prima Comunione. E dopo questo, il suo confessore per lungo tempo non le permise di accostarsi alla Comunione se non una domenica al mese o nelle feste solenni, solo quando cioè avesse ritenuto la sua anima sufficientemente pura per potersi accostare all'incontro con Cristo. Oggi Papa Francesco, come hai sottolineato, ci ricorda che Gesù ha dato se stesso per tutti, soprattutto per i più miseri e bisognosi di essere "toccati" dall'incontro con Lui. Oggi, forse, ci accostiamo all'Eucarestia con troppa superficialità (io per prima). Che bello poter riscoprire il senso vero e profondo di questo incontro che può cambiarci profondamente, se solo ne diventiamo consapevoli e lo accogliamo con fede.
RispondiEliminaPurtroppo anche la Chiesa è caduta nel tranello puro/impuro, escludendo dalla tavola eucaristica alcune categorie. Dobbiamo tornare a valorizzare l'azione inclusiva dell'amore di Cristo, che, nell'incontro con lui, offriva alla persona l'occasione della conversione.
EliminaRicordate sempre di firmare i vostri commenti che risultano anonimi. Grazie. Giancarlo